Arrivò prima la lama, poi il vento

Storiella Fantasy I

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    Spaventapasseri vivente

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    I. Capitolo
    II. Capitolo
    III. Capitolo
    IV. Capitolo
    V. Capitolo




    ***



    I. Capitolo

         Cavalcava da un'ora e mezza tra le brulle colline che si stagliavano tutt'attorno sotto un limpido cielo autunnale. Terre ancestrali che un tempo appartenevano al dominio dei suoi padri. Ogni costone, ogni scarpata, ogni catena rocciosa, ogni singolo ciuffo d'erba era stato portato via, risanato dalle mani calde e lucenti degli Alonar.
         Dannati!
         L'Oscuro Presagio risalì il lungo pendio che si inerpicava sul fianco di una parete rocciosa, fermò il cavallo e scese dalla sella. Condusse l'animale per le briglie fino a uno specchio d'acqua che sgorgava da una stretta fessura nella roccia ricoperta dal muschio. Più avanti, giacevano le rovine del Tempio di Halkanor, ricoperte dalla folta vegetazione da cui si innalzavano due tetri e decrepiti pilastri avvinghiati dalla morsa delle piante arrampicanti.
         Un tempo era un luogo sacro di adorazione e pellegrinaggio, ma la sua potenza era andata persa ere or sono. Chi giungeva qui, contemplava l'enorme statua alta dieci metri di un uomo nudo dalle braccia portentose, il petto villoso e le spalle indurite. Stringeva una mazza di diamante nella mano destra e una pergamena nella sinistra.
         Violenza e conoscenza correvano sullo stesso sentiero e gli Antichi Uomini ne conoscevano la saggezza e il pericolo. Ma non li salvò dalla Prima Distruzione di Esberoth. E ora quella statua, che pareva costruita ieri, sprigionava un'arcana potenza di soggezione e venerazione come il mare oltre l'orizzonte sconosciuto.
         L'Oscuro Presagio guardò a valle. Là, circondata dalle alte possenti mura di cobalto, si ergeva Natmalor, l'antica città degli Alonar. Gli alti edifici di marmo avvolte dalle piante si protendevano ordinatamente verso il mare e risplendevano di luce propria, mentre il cantico di Alonar, che armonizzava la connessione fra terra e cielo, risuonava a migliaia di distanza.
         L'Oscuro Presagio strinse la mano a pugno e grugnì. Se avesse potuto, l'avrebbe rasa al suolo. Avrebbe cacciato e ucciso ogni Alonar dal mondo, dal Galandur. Montò in sella e discese il pendio a galoppo, finché si addentrò nella Prima Foresta e rallentò l'andatura della cavalcatura.
         Gli antichi alberi troneggiavano maestosi sulla sua testa rasata come osservatori silenti. Le loro fastose chiome oscuravano il sole e solo alcuni sottili fasci di luce illuminavano a chiazze il terreno cosparso di grosse e nodose radici e cespugli grandi due volte un uomo. In alcuni punti le radici formavano una parete impenetrabile e in altre si spostavano al passaggio dell'Oscuro Presagio, come volessero condurlo in un luogo preciso.
         Egli procedeva con circospezione. Non gli piacevano gli alberi. Non gli piaceva niente di verde. Lui agognava alle terre di cenere, laddove le fiamme primeggiavano sulle acque e ogni lembo d'acqua era lava. Gli alberi parevano percepire i neri sentimenti dell'Oscuro Presagio e da qualche parte, in lontananza, si udivano strani rumori.
         Gli alberi sussurravano, la Prima Foresta discuteva.
         L'Oscuro Presagio proseguì lungo lo stretto sentiero creato dalle radici e si ritrovò circondato da una parete compatta e intrecciata di radici alta quattro metri, che gli si restringeva attorno come una trappola mortale.
         Il cavallo spalancò i suoi occhi rosso sangue in preda all'istintivo terrore, scalciò e nitrì senza sosta. L'Oscuro Presagio accarezzò il muso dell'animale corrotto e quello si calmò un poco. Poi smontò dalla sella, estrasse le due asce legate dietro le spalle e guardò le pareti nodose restringersi sempre di più.
         Quando fece per colpirle, una freccia gli si piantò a un passo dai suoi stivali e balzò all'indietro. Il suo vacuo sguardo incrociò quello più caldo e lucente di un Alonar, che se ne stava in piedi su un ramo di un albero con un arco in mano.
         L'Alonar saltò giù e atterrò graziosamente a pochi passi dall'Oscuro presagio, pronto a mozzargli quella bella testa con un solo rapido fendente e impalarla per il puro gusto di farlo.
         L'Alonar sorrise e una luce abbagliante si sprigionò dal suo corpo. «Il tuo cuore è messaggero di oscure parole e le tenebre accompagnano i tuoi passi, Matmoroth.»
         L'Oscuro Presagio abbozzò un mezzo ghigno. «Quelle stesse tenebre che avete schiacciato da questa inutile foresta ere fa. Per cosa, poi?!» Sputò liquido nero su un cespuglio, che prese ad ammuffire e morire. «Per salvarli dalle Sacre Fiamme? Il fuoco esige il suo tributo, Alonar! E quale tributo è più onorevole di questa foresta?»
         L'Alonar rimase impassibile alle parole dell'Oscuro Presagio. Non era la prima volta che la Prima Foresta veniva minacciata dai suoi stessi figli.
         Quale male permette tutto ciò?
         «Hai perso la lingua, Alonar?!» ghignò l'Oscuro Presagio.
         L'Alonar alzò due dita e le nodose radici scivolarono nel terreno come serpenti, sollevando una nube di polvere nell'aria. L'Oscuro Presagio la respirò a pieni polmoni e vecchie rimembranze presero a scalfirgli i ricordi assopiti da tempo immemore.
         Quando la nube di disperse, l'Oscuro Presagio spalancò gli occhi. Una dozzina di Alonar lo circondavano da ogni lato con gli archi tesi. Un solo movimento ed egli sarebbe stato trafitto da decine di frecce.
         L'Oscuro Presagio alzò il mento con aria di sfida. «Potrei uccidervi tutti, ma non ho tempo per questo. A meno che...»
         «Ogni vita è preziosa» disse l'Alonar che gli aveva parlato la prima volta. «Il soffio di Leanar accarezza tutti i cuori, persino quelli corrotti di un Matmoroth. Vuoi dunque rischiare la sua ira, abominio di Dulgoroth?»
         «Abominio... Mi piace» lo schernì l'Oscuro Presagio. «Adoro il sangue di voi Alonar, ma sono qui per recare un messaggio. Il mio Signore è piuttosto suscettibile sui suoi ordini. Egli desidera che vengano eseguiti alla lettera.»
         L'Alonar si accigliò con fare confuso. L'anima che aveva davanti era andata persa da tempo e lo percepiva come lo sbocciare di un fiore di montagna. Nei suoi occhi ardevano solo fuoco e cenere. «E quale missiva rechi, Matmoroth?»
         Il tempo di una palpitazione, di un battito di ciglia.
         Arrivò prima la lama, poi il vento.

         La testa dell'Alonar cadde sul terreno e dozzine di archi scoccarono all'unisono come un coro celestiale.
         L'Oscuro Presagio crollò di spalle sul terreno con un sorriso trionfante e il busto trafitto da una moltitudine di frecce dalla piuma dorata. Scoppiò in una risata isterica mentre sputava sangue violaceo e altro ne rivolava lungo la bocca.
         Gli Alonar lo circondarono e lo fissarono con pietà. Scorgevano l'anima pura di una creatura corrotta dalle Sacre Fiamme, non l'essere che era divenuto. Non guardavano i suoi occhi dall'iride bianca, la sue labbra nere, gli occhi cerchiati, la pelle cadaverica puntellata da vene nere. No, guardavano l'anima. Lo spirito intrappolato in quel corpo. E ne percepivano il dolore, l'eterna sofferenza.
         L'Oscuro Presagio sputò ai piedi di uno di loro. «Che avete da guardare?! Non avete... non...» Tossì ancora e ancora, finché scalciò e si portò le mani alla gola per liberarsi invano dal sangue pestifero che gli bloccava il respiro. Boccheggiava e si dimenava tra gli ultimi spasmi di vita, il sorriso sempiterno stampato su quel volto spettrale.
         Gli Alonar potevano salvarlo con le loro arti curative, ma nessuno si mosse. La corruzione era totale. Lo spirito succube dalle Sacre Fiamme. Lo guardarono morire e annaspare nel suo stesso sangue. Poi posarono le mani sul suo cadavere e intonarono un cantico di purificazione e rinascita.

    Ananor molan tese
    Migdaror lonaketh pas Morarar
    Alea, Leanar
    Alea, Leanar
    Saloas mere Nolamas, sanamas Aenar Dadalas
    Alea, Leanar
    Alea, Leanar
    Nalanor melke pas miri olonar


    Tu che sei Luce
    Purifica lo spirito del tuo figlio perduto
    Cara, Leanar
    Cara, Leanar
    Egli ha sofferto, ma anela la pace
    Cara, Leanar
    Cara, Leanar
    Accogli il suo spirito nel tuo caldo abbraccio


         Un'abbagliante luce argentea esplose dagli occhi e dalla bocca dell'Oscuro Presagio e gli Alonar sorrisero con il volto rigato dalle lacrime. Le radici spuntarono dalla terra come grossi tentacoli, ne avvinghiarono dolcemente il corpo e lo inghiottirono nel terreno. Dove un tempo giaceva una creatura corrotta dalla Sacre Fiamme, ora spuntavano timidamente delle anemoni.
         Gli Alonar raccolsero il corpo del loro fratello decapitato e si allontanarono, pronti a consegnarlo alle pacifiche Acque Cristalline.
         Ma la guerra era imminente.
         Le Fiamme ambivano alle Acque e la Cenere ambiva al cielo e alla terra.


    Edited by ò__ò - 10/12/2023, 01:51
     
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    Azathoth - il Dio Sultano

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    Ci vorrebbe una sintesi per Anita, magari la scriverò.

    Finalmente il Nuovo Cerbero si è convinto di scrivere nel forum. Al primo capitolo si dà un 7,5/10.

    Si suppone che ce ne saranno altri.
     
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    II. Capitolo

         Non era né il vento, né la pioggia ad averne ghiacciato il cuore. Non era nemmeno la perdita dei suoi ricordi. No, non era niente.
         Assolutamente niente.
         Valhan era davanti alla tomba della sua amata morta anni prima e non provava niente. Il suo cuore non sentiva più i colori, la pioggia picchiettargli il viso, né l'elsa della spada stretta in mano dalla cui lama rivolavano gocce di sangue violaceo lavate via dall'acqua.
         Non sapeva nemmeno se l'avesse mai amata, o se fosse stato tutto un sogno. Ella l'aveva amato e glielo aveva mostrato coi fatti. Ma Valhan? Non lo sapeva. Stava con Bea solo perché ella lo seguiva nei suoi spostamenti, nelle sue lotte. Se ne prendeva cura ed egli la proteggeva dal male, umano e non. Per Valhan era più un patto di convivenza, che una storia d'amore.
         E forse era Bea ad amare per due.
         Tutt'attorno, tra gli abeti e l'erba alta, giacevano i corpi smembrati dei Kerghal. Non era la prima volta che la lama di Valhan aveva seminato morte tra quelle creature partorite dal male puro, Figli delle Sacre Fiamme. Erano così mostruosi e deformi, che l'unico modo per ucciderli era strappare loro gambe e braccia.
         Mentre Valhan fissava il cumulo di pietre sulla tomba di Bea, un fulmine squarciò il cielo alle sue spalle per poi disperdersi in lungo e tetro tuono.
         «È ora di andare» disse una voce alle sua spalle.
         Valhan si voltò. Il suo compagno di spada gli era davanti nella sua armatura di cuoio e pelle. Una lunga spada dentata era legata dietro la schiena e un lungo pugnale era stretto alla vita. Lo conosceva fin da quando ne aveva memoria. Avevano combattuto e sofferto insieme, eppure era ancora un estraneo.
         «Si sono diretti qui per un motivo» rispose Valhan con il volto cupo. «Volevano me.»
         «Non è il momento per parlarne. Andiamo!»
         Valhan lanciò un ultimo sguardo alla tomba della sua amata e seguì Fernor tra gli intricati alberi le cui radici si intrecciavano in ogni direzione. Scesero il pendio fangoso per un centinaio di metri e superarono un ruscello che serpeggiava in mezzo a una fila di rocce. La foresta era silenziosa, segno che c'era qualcuno o qualcosa nei paraggi. Aggirarono un costone roccioso e giunsero sul limitare di una stradina che tagliava la foresta in due.
         Un gruppo di compagni di spada li attendeva vicino a un carro coperto. Appena sbucarono dagli alberi, quelli portarono istintivamente le mani sull'elsa della spada.
         «Siamo noi» disse Fernor.
         «Avete ucciso i Kerghal che sono fuggiti?» chiese Dordhal, il comandante della compagnia.
         «Sì, sono tutti morti.»
         Dordhal guardò Valhan con fare guardingo. «Cercavano te, suppongo. Perché?»
         «Non lo so, ma lo vorrei tanto sapere.»
         Il comandante lo squadrò per un momento. Valhan poteva essere uno di quegli uomini in grado di attirare le forze delle Sacre Fiamme con la sola aurea negativa. Bastava essere vicino a un fonte del male e ogni creatura malefica si sarebbe proiettata nei paraggi. Era così che il regno di Salferon aveva perso la maggior parte del territorio. Violenza e corruzione. Un invasione dopo l'altra. Un massacro dopo l'altro.
         Dordhal sospettava che Valhan fosse il tramite e che la tomba di Bea fosse la fonte, ma non aveva prove per accusarlo. Anche i suoi compagni di spada la pensavano allo stesso modo e restavano tesi e vigili quando erano in sua presenza.
         «Cosa c'è nel carro?» chiese Fernor al comandante.
         «Niente» rispose secco Dordhal. Poi guardò gli altri. «Muoversi! Dobbiamo arrivare a Thornoth prima del crepuscolo.»

         Proseguirono spediti per diverse ore davanti a villaggi e fattorie in fiamme. Nelle campagne circostanti scorgevano sovente i cadaveri dei villani fatti a pezzi. Un bambino piangeva accanto alla madre morta. Un anziano vagava con lo sguardo perso nel vuoto. Una fila di corpi scarnificati impalati lungo un tratto di strada.
         Quando furono a qualche chilometro di distanza da Thornoth, cinque donne uscirono da dietro alcuni salici e corsero e incespicarono più volte verso di loro. Avevano i volti e le vesti sporche di fumo e fango e nei loro occhi arrossati si annidava la sofferenza.
         I compagni di spada portarono le mani sul pomo dell'arma e non le tolsero nemmeno quando le donne li raggiunsero, supplicandoli di portarli con loro.
         «Andate via!» urlò Dordhal con gli occhi serrati. «Toglietevi dalla strada!»
         La più anziana si gettò ai suoi piedi e scoppiò in lacrime. «Vi supplico! Portateci con voi! I Kerghal hanno distrutto il nostro villaggio. Hanno ucciso tutti! Non sappiamo dove andare... Vi prego.»
         Il comandante sfoderò la spada e gliela puntò in faccia. «Non te lo ripeterò un'altra volta, donna! Sparisci, o ti taglio la gola seduta stante.»
         L'anziana donna balbettava pietrificata, le mani che tremavano senza sosta.
         Dordhal alzò la spada per colpirla, ma le altre donne la condussero via e si fermarono impaurite a lato della strada strette le une alle altre.
         La compagnia tornò a muoversi e Valhan lanciò uno sguardo al gruppo di donne che li guardavano allontanarsi in lacrime. Sapeva che sarebbero morte tutte nel giro di poche ore. Forse anche prima che il sole andasse a morire a occidente.
         Ma non gli importava. Ai compagni di spada non importava. Loro si occupavano di uccidere gli abomini, non di salvare le persone. Non si preoccupavano degli altri. Tutto ciò che contava per loro erano i compagni di spada e i Kerghal.
         Erano stati scelti per quest'onere fin dal primo vagito, strappati dal seno delle proprie madri per servire Reekor, Dio dell'azzurro spirito, protettore del creato. E lo facevano bene. Senza emozioni, senza sentimenti. Liberi dal tormento mentale, dalla corruzione umana.
         E non erano gli unici nel Galandur.
     
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    III. Capitolo

    Giunsero a Thornoth sul finire della sera. La città, costruita sul fianco di una ripida catena montuosa, era protetta da possenti e decrepite mura ciclopiche e torri di guardia ricoperte dal muschio che si intervallavano ogni cinquanta metri. Il fiume Sandaros, che sgorgava giù dalla montagna, tagliava in due la città e si gettava in una cascata scintillante nel lago Igarna.
    Dordhal fermò la compagnia con una alzata di mano e si avvicinò alle porte. «Dordhal, comandante dei compagni di spada.»
    Nessuna risposta. I camminamenti sulle mura parevano abbandonati.
    Poi una testa sbucò dal parapetto sopra al cancello. «L'ingresso è vietato, signore. Nessuno può entrare o uscire dalla città.»
    Il comandante si accigliò irritato. «Non puoi negarmi l'accesso, soldato. Sono il...»
    «Sono gli ordini dell'Alto Re, signore» disse il soldato.
    «Allora riferitegli che Dordhal desidera parlargli.»
    La testa del soldato sparì dietro il parapetto.
    Il comandante ritornò dai suoi uomini. «Montate le tende. Resteremo qui per un po'.»

    Allestirono il campo a ridosso del fiume circondato da abeti e massi rocciosi, poco distante dalla strada di ciottoli che conduceva alla città. Il comandante assegnò i turni di guardia e si ritirò nel suo padiglione, costruito al centro di una decina di tende.
    Valhan sedeva su un tronco cavo con le mani protese verso il bivacco assieme a due compagni di spada. Erano stanchi per la lunga marcia e agognavano un po' di riposo.
    Fernor li raggiunse e si sedette accanto a loro. «Cosa darei per una bistecca di montone.»
    Valhan lo guardò. «Fattela offrire dal comandante. Sicuramente ora sta banchettando con carni e vino alla nostra faccia.»
    «Non dovresti parlare così del comandante» rispose uno dei due soldati, il più giovane.
    «E come dovrei parlare?» disse Valhan serio in volto.
    Il ragazzino lo fissò torvo. «Tu non dovresti nemmeno essere qui. Sei un Tramite. Quelli come te portano solo caos.»
    Valhan scattò in piedi pronto a prenderlo a pugni, ma Fernor si frappose tra loro. «Va bene, adesso calmatevi. Siamo tutti stanchi e nervosi.»
    Il soldato giovane abbozzò un mezzo ghigno. Valhan gli tirò un pugno in faccia e lo mandò a terra mezzo stordito.
    Fernor lo bloccò con il corpo, prima che potesse pestarlo a morte. «Basta così! Andiamo!» Lo tirò per un braccio verso il fiume tra gli sguardi minacciosi e avvelenati dei compagni di spada.
    Quando raggiunsero la battigia del fiume, Fernor mollò la presa dal braccio di Valhan. «Non puoi colpire un compagno di spada. Se Dordhal lo venisse a sapere...»
    «La mosca gli sarà già arrivata all'orecchio» disse Valhan con aria apatica. «Quel succhia-tette deve imparare a stare al suo posto e portare rispetto.»
    «Non spetta a te punirlo per questo, ma al comandante» rispose Fernor.
    Valhan sbuffò e spaziò lo sguardo sulle acque cristalline del fiume sul cui fondale nuotavano un banco di salmoni. Poi si voltò verso il suo compagno di spada. «Sono tutti contro di me. Pensano che io sia un Tramite. Hai sentito quel ragazzino, no? Se quel succhia-tette osa mancarmi di rispetto così, i veterani cosa faranno? Mi taglieranno la gola mentre dormo?»
    Fernor restò in silenzio per un momento. «È vero. Non godi più del loro rispetto. Da quando i Kerghal sono fuggiti dalla nostra fortezza e si sono diretti alla tomba di Bea, tutti hanno creduto che tu fossi un Tramite.»
    «Ma non lo sono» rispose Valhan deciso. «Tu eri là quando ho fatto a pezzi quelle infide creature. Mi hai visto con i tuoi occhi, sentito con le tue orecchie. Non sono un Tramite!»
    «Nessun Tramite sa di esserlo fino a quando non accade l'inevitabile» disse Fernor. «I Kerghal combattono fino alla morte quando invadono un luogo. Ma se fuggono, vuol dire che stanno attirando un Tramite verso la Fonte, così da far generare altri loro simili nei paraggi.»
    «Bea è morta anni fa» disse Valhan senza alcuna emozione. «Il legame che ci univa ormai è perduto, sempre se sia mai esistito.»
    Fernor si sedette su una roccia. «Lei ti amava. Ti ha sempre amato. Lo sapevano tutti nella fortezza. Anche se noi compagni di spada non proviamo sentimenti d'affetto, ci leghiamo ugualmente alle persone a nostro modo. Vorrà dire qualcosa, giusto? È sempre un legame o qualcosa di simile.»
    Valhan abbassò gli occhi pensieroso. «Lei si prendeva cura di me e io di lei. Non c'era nessun legame, non da parte mia. A me faceva solo comodo. E penso che anche a lei faceva comodo stare sotto il mio mantello. Quando è morta per mano dei predoni, non ho versato nessuna lacrima. Non c'era nessuno legame, nessun dolore per la sua morte.»
    Mentre le nuvole oscuravano il sole, una folata di vento gelido soffiò da occidente e smosse le foglie degli abeti.
    Fernor osservava una fila di formiche passargli accanto allo stivale di cuoio. Una trasportava la zampa di un insetto tra le mandibole. «I Kerghal hanno percepito qualcosa in te. Ti hanno condotto là per un motivo e...»
    «Valhan, figlio di Calhan!» tuonò una voce alle loro spalle. Quello si girò assieme a Fernor. La sagoma del comandante Dordhal si stagliava sopra una depressione erbosa che scendeva irregolare nella loro direzione. «Hai osato colpire un tuo compagno di spada! Un giovane con la metà dei tuoi anni. Dovevi essergli d'esempio, fargli da mentire e trasmettergli la tus esperienza di guerriero. Invece lo hai picchiato!»
    Valhan resse il suo sguardo senza rispondere.
    Il comandante scese la depressione e lo raggiunse scortato da tre compagni di spada. Uno di loro era il ragazzino che aveva offeso Valhan e che ora lo fissava minaccioso con un occhio tumefatto. Altri compagni di spada osservavano la scena alle loro spalle.
    «Cosa hai da dire a tua discolpa?» domandò il comandante con il mento alzato.
    Valhan serrò gli occhi, irritato. Odiava la falsa teatralità di Dordhal. Egli sapeva benissimo cosa fosse successo, ma preferiva fingere. «Quel succhia-tette mi ha mancato di rispetto. Così gli ho insegnato le buone maniere. I giovani non devono mai mancare di rispetto un guerriero più anziano. È una delle regole della compagnia.»
    «Così hai pensato bene di risolvere la situazione con un pugno in faccia?» chiese Dordhal con falso disappunto.
    «Una cura veloce per l'arroganza» rispose Valhan sarcastico.
    «Vedo che non prendi sul serio quanto è accaduto. Certamente qualche giorno in gabbia ti aiuterà a riflettere. Prendetelo!»
    I tre compagni di spada sfoderarono le spade, ma Valhan fu più veloce.
    «Rinfodera subito la spada!» gridò Dordhal in tono autoritario. «È un ordine!»
    Valhan lo ignorò e puntò lo sguardo sui tre guerrieri che gli si muovevano attorno. Aspettava una loro mossa, il primo attacco. Ma quelli esitavano per paura di essere uccisi. Sapevano che egli era uno dei migliori guerrieri della compagnia.
    Fernor si portò davanti a Valhan. «Non farlo. Non macchiarti di disonore uccidendo i compagni di spada. Vedrai, il comandante sarà clemente con te. Arrenditi.»
    «Arrendermi?!» rispose Valhan accigliato. «Non hanno intenzione di sbattermi in gabbia, ma di tagliarmi la testa.» Guardò Dordhal che lo fissava con fare austero. «Non è così, comandante?»
    Dordhal non rispose.
    «Ora spostati, Fernor!» disse Valhan. «Questa storia non ti riguarda. E me che vogliono.»
    Quando quello si fece da parte, il compagno di spada giovane si lanciò alle spalle di Valhan e gli sferrò un fendente a tradimento all'altezza del collo. L'altro scattò in avanti, si girò e lo infilzò nel basso ventre con la spada dentata. Poi la tirò fuori e gli schizzi di sangue macchiarono il terreno sassoso.
    Il giovane lasciò cadere l'arma e crollò a terra con le mani strette sulla ferita che grondava sangue e gli occhi fissi e increduli su Valhan.
    «Uccidetelo!» gridò Dordhal con il volto paonazzo per la rabbia. «Uccidetelo!»
     
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    IV. Capitolo

    I compagni di spada in cima alla depressione scemarono giù e raggiunsero gli altri due compagni di spada che giravano attorno a Valhan.
    Quello si guardava attorno, circondato da tutti i lati. Non dava le spalle per più di un secondo allo stesso uomo, per non essere trafitto a tradimento.
    Fernor sfoderò la spada dentata e si mise accanto a Valhan.
    Egli lo guardò confuso. «Che stai facendo?» domandò.
    «Ti guardo le spalle» rispose Fernor. «Un vero compagno di spada non abbandona mai un amico in difficoltà, né dubita delle sue parole.»
    «Sei un idiota! Ecco cosa sei» disse Valhan accigliato. «Ti ammazzeranno! Lo capisci? Tu non mi devi niente e non c'entri nulla con questa storia. E me che vogliono!»
    Fernor sorrise. «Hai sempre avuto il vizio di ripeterti, anche a un passo dalla morte.»
    Valhan scosse la testa con un mezzo sorriso divertito. Sapeva che qualunque cosa gli avesse detto, Fernor gli sarebbe rimasto fedele alla parola data. Non aveva mai creduto che fosse capace di tanto coraggio. Sacrificare se stesso per un amico. Forse aveva ragione. I compagni di spada erano capaci di stringere legami. E se le cose stavano così, allora c'era un'altissima probabilità che egli fosse davvero un Tramite. E che Dordhal e i compagni di spada avessero ragione nel volerlo uccidere.
    I suoi pensieri vennero spazzati via da un compagno di spada che gli si lanciò contro alla sua sinistra. Gli menò un fendente basso, che Valhan parò con la spada dentata per poi squarciargli la gola con un secco fendente.
    Il guerriero cadde dapprima sulla ginocchia con le mani premute sulla ferita che fiottava sangue, poi crollò di spalle a terra.
    Un altro attaccò Fernor di lato, ma quello si spostò dalla traiettoria della lama e gli tirò un calcio frontale sul petto per allontanarlo.
    «Devi ucciderli!» disse Valhan. «Loro non ci penseranno due volte a ucciderti!»
    Fernor annuì con poca convinzione. Conosceva quegli uomini. Aveva condiviso con loro sangue e sudore. I disagi di una vita spartana, vuota e votata alla violenza. E ora gli toccava ucciderli. Quando si era schierato con Valhan, non aveva pensato minimamente che questo comportava uccidere i suoi compagni di spada.
    Uno di loro si staccò dallo stretto cerchio che attanagliava i due uomini e sferrò un rapido affondo contro il ventre di Valhan. Quello parò il colpo col piatto della spada, lo infilzò al petto e tirò fuori la lama lorda di sangue. L'altro arretrò per qualche passo, prima di cadere a terra.
    «Attaccatelo tutti insieme!» urlò Dordhal dall'esterno del cerchio. Era in piedi su alcune rocce che si protendevano verso la riva delle placide acque del fiume. «Li voglio morti! Ora!»
    Ma i compagni di spada esitavano e si scambiavano sguardi carichi di tensione. Anche se l'ordine era chiaro, nessuno voleva morire per primo. Sapevano che Valhan avrebbe portato con sé molti uomini nell'Nilmanir, prima di perire. E nessuno voleva andarci prima del tempo.
    Valhan scorse un'apertura tra lo stretto cerchio di uomini. «Guardarmi le spalle» disse a Fernor, che annuì. Poi scattò come una pantera verso un compagno di spada e gli trapassò il petto ancor prima che l'altro vedesse il suo braccio muoversi. I due guerrieri accanto all'uomo colpito si distanziarono atterriti per un secondo e Valhan si infilò nella fessura, seguito alle spalle da Fernor.
    I due si diressero a perdifiato verso la depressione erbosa, inseguiti dai compagni di spada inebriati da un improvviso vigore. Si sentivano predatori a caccia delle loro prede, ora che Valhan e Fernor volgevano alla fuga.
    «Non fateli fuggire!» gridò Dordhal con gli occhi arrossati dalla rabbia.
    Valhan e Fernor risalirono rapidamente la depressione e si precipitarono verso la foresta di abeti. Correvano senza mai voltarsi, tra le urla eccitate degli inseguitori alle calcagna. Saltarono alcune nodose radici, discesero un lungo avvallamento e si ritrovarono davanti a una distesa di morte. Fili di fumo nero fuoriuscivano dalle lunghe crepe nel terreno annerito. Resti scheletrici di uomini e animali giacevano qua e là tra gli alberi carbonizzati.
    «Cosa è successo qui?» domandò Fernor sconvolto.
    «Muoviamoci» rispose Valhan.
    Fiancheggiarono una lunga scarpata e si diressero a valle.
    «Perché non abbiamo avvistato alcun fumo levarsi nel cielo?» domandò Fernor corrucciato.
    «Non lo so» rispose Valhan. «Forse è accaduto giorni fa.»
    «La cenere è fresca. Guarda, tocca quest'albero. Visto? È caldo. È successo da poco.»
    Valhan si accigliò pensieroso. «Non può essere... Il cielo dovrebbe essere oscurato dal fumo, invece è limpido.»
    «È quello che mi domando anch'io» disse Fernor. «È accaduto qualcosa di strano qui...» Sgranò gli occhi come colpito da un fulmine. «Forse è per questo che ci hanno impedito di entrare in città. L'Alto Re non voleva correre rischi.»
    Valhan si accigliò. «Rischi? Per cosa?»
    «Gli uomini di cenere» rispose Fernor. «Se le storie che ho sentito sono vere, le Sacre Fiamme si preparano a invadere il Galandur. Gli uomini di cenere sono l'avanguardia. Questo spiegherebbe la totale mancanza di tossicità dell'aria e...»
    «La mancanza di fumo nel cielo» disse Valhan.
    Proseguirono in silenzio per un centinaio di metri, poi girarono attorno a un abete sradicato e carbonizzato e fiancheggiarono una parete rocciosa.
    Valhan guardò Fernor. «Se gli uomini di cenere sono giunti fin qui, allora anche gli Alonar lo hanno fatto. Forse li hanno respinti, prima che portassero fiamme e cenere a Thornoth.»
    Fernor lanciò un'occhiata al terreno annerito. «La terra dovrebbe mostrare già segni di risanamento, ma qui non ne vedo. Ci sono troppe spaccature. Troppa morte. Forse gli Alonor li hanno respinti a fatica, oppure sono stati costretti alla ritirata.»
    Mentre si avvicinavano a quella che sembrava una caverna incastonata tra una corona di ammassi rocciosi ricoperti dalla cenere, le urla dei compagni di spada si erano ormai affievoliti del tutto.
    Dordhal non avrebbe spinto i suoi uomini a cercarli nella terra di cenere, non con il sole morente all'orizzonte. Avrebbe desistito e augurato che morissero.
    Fernor afferrò il braccio di Valhan. «Fermo! Potrebbe esserci un orso ferito là dentro o qualcos'altro.»
    «Il sole sta calando» rispose Valhan. «Dobbiamo trovare un posto dove passare la notte e questa caverna è perfetta. Qualunque cosa ci possa essere in quella oscurità, non potrà mai essere più pericolosa di ciò che camminerà a breve qui intorno.»
    Fernor sapeva che si riferiva agli Erranti, empie creature deformi che la notte vomitava sui campi anneriti dagli uomini di cenere. «Non possiamo accendere un fuoco per tenerli lontani. Tutta la legna è bruciata. E quelle cose potrebbero strisciare verso di noi con il favore delle tenebre e divorarci.»
    Valhan corrugò le sopracciglia. «Anche se corressimo senza mai fermarci, non riusciremo mai ad allontanarci abbastanza. Ci rimane ancora mezz'ora di luce e non sappiamo per quanti chilometri si estendono le terre di cenere ad ovest. Dobbiamo rimanere qui e rischiare. Non abbiamo altra scelta.» Puntò il dito verso una stretta nicchia all'entrata della caverna. «Passeremo la notte lì. Staremo stretti, ma almeno saremo protetti su tre lati.»
    «Ma saremo in trappola» rispose Fernor preoccupato. «Gli Erranti potrebbero bloccare l'unica via di fuga. Non potremo nemmeno usare le spade per difenderci. Per loro sarebbe facile farci a pezzi.»
    «Se faremo silenzio, non ci succederà niente. Andrà tutto bene.»
    Fernor non ne era sicuro. Gli erranti avevano il fiuto di un segugio e gli occhi di un'aquila. Erano esseri creati dalle Sacre Fiamme per divorare ogni essere senziente. Gli unici che sfuggivano al loro terrore erano gli animali. Ma era una peculiarità che condividevano con ogni infida creatura partorita dalle Sacre Fiamme, tranne con gli uomini di cenere. Essi agognavano a sterile distese di cenere e cieli ottenebrati dal fumo eterno. E sfuggivano al pieno controllo delle Sacre Fiamme. Nessuna conosceva il motivo per cui ignorassero i comandi dei loro creatori, ma i saggi del Monte Paranor mormoravano che ci fosse un secondo male che tirava i fili degli uomini di cenere. Un male che si celava persino alle Sacre Fiamme, che del male ne era l'origine.
    Valhan si fermò all'ingresso della caverna e battè la lama sulla calda pietra annerita dalla cenere, sollevando uno sbuffo di cenere. Il suono echeggiò a lungo nell'oscurità, prima di cessare del tutto. «Non c'è nessuno, o avrebbe già manifestato la sua presenza.»
    Fernor guardò il sole mandare gli ultimi sprazzi di luce nel cielo rosso arancio dietro l'orizzonte collinoso. Sospirò. «Non vedo l'ora che sia già domani.»
     
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    Valhan e Fernor si sistemarono nella stretta nicchia all'ingresso della caverna.
    «È più stretta di quanto pensassi» disse Fernor a disagio.
    «Non parlare« rispose Valhan. «Presto sarà buio. Se vuoi sederti, fallo adesso. Dopo non potremo più muoverci.»
    Fernor si sedette di spalle contro la parete rocciosa, la spada dentata sul grembo.
    Valhan rimase in piedi. Era abituato a restare immobile per molte ore, perciò non ne avrebbe sofferto.
    La luna ascese lentamente nel firmamento scuro macchiato da una nebulosa violacea e puntellato di stelle.
    Poi si udirono dei gemiti.
    Prima distanti, poi vicini. Erano lamenti di agonia. A volte erano così vicini che Valhan e Fernor credevano che gli uomini di cenere fossero accanto al loro orecchio. Ma non era così.
    Quegli esseri antropomorfi dalla pelle carbonizzata percorse da crepe di fuoco, gli occhi giallastri e le unghie affilate vagavano fuori senza meta. Ogni notte prendevano vita dalla cenere e al mattino si incenerivano.
    In passato c'erano stati tentativi di ripulire il suolo corrotto dalla cenere, ma quella ritornava. Era come se la cenere producesse altra cenere per estendere la sua influenza sempre più lontano. A volte lo faceva così velocemente che riusciva a coprire mille chilometri in un giorno. E altre volte era così lenta che non sembrava muoversi di un metro. Nessuno sapeva cosa velocizzasse e rallentasse l'espansione, ma tutta Galandur sapeva che di notte nessuno doveva trovarsi nelle terre di cenere se ci teneva a vivere.
    Valhan e Fernor passarono un paio d'ore tra gemiti e scricchiolii inquietanti.
    Un uomo di cenere varcò la soglia della caverna. Si muoveva con passo incerto, ricurvo in avanti, la testa e il busto che fremevano in preda ai tic. Sembrava in tutto e per tutto un uomo infetto dal vino di Baldoryr. Un letale intruglio di chicchi d'uva e foglie di Elvenin, capace di trasformare un uomo in una bestia selvaggia per l'eternità.
    Valhan avvertì l'olezzo di fumo e zolfo e strinse con forza l'impugnatura della spada dentata. Sapeva che gli era molto vicino, forse anche troppo. La fronte cominciò a grondare sudore e la bocca a inasprirsi. La mano con cui impugnava la lama fremeva d'ansia e il cuore gli martellava nel petto. Erano proprio le palpitazioni a preoccuparlo. L'uomo di cenere aveva un udito fine. Se lo avesse sentito, Valhan non lo avrebbe visto nemmeno arrivare in quella oscurità totale.
    Mentre egli sprofondava sempre più nelle nevrotiche braccia dell'ansia, Fernor non aveva percepito l'uomo di cenere. Ogni tanto cadeva in un sonno senza sogni e si risvegliava di colpo in preda al panico. Cercava di tenere gli occhi aperti, ma non ci riusciva. Era troppo stanco. Le palpebre si chiudevano da sole e si ritrovava di nuovo addormentato.
    L'uomo di cenere si fermò a un metro dalla nicchia e restò immobile a lungo. La puzza di fumo e zolfo alla fine raggiunse anche Fernor, che sbarrò gli occhi e vagò con lo sguardo in cerca dell'infida creatura celata nel buio. Un gesto istintivo del tutto inutile in quella oscurità morbosa.
    Poi il fascio della luna, che scivolava verso l'orizzonte, penetrò debolmente l'entrata della caverna.
    Valhan e Fernor scorsero con orrore la sagoma fremente dell'uomo di cenere. Quello si voltò nella loro direzione ed emise un inquietante suono gutturale come provenisse dal fondo di un abisso.
    Fernor scattò in piedi in preda al panico, ma l'uomo di cenere fu più veloce e gli fu addosso. Quando fece per squarciargli il petto con le unghie affilate, Valhan gli sferrò un fendente al collo. La lama penetrò fino alla carotide e dallo squarciò uscì uno sbuffo di fumo.
    L'uomo di cenere voltò la testa penzolante verso Valhan, gli occhi due strette fessure infernali. Quello arretrò un poco e la creatura gli ruggì in faccia. Il calore dell'alito bruciò il viso di Valhan, che gridò dal dolore e gli sferrò un fendente alla base del collo.
    La testa dell'uomo di cenere si staccò e rotolò verso l'ingresso e il corpo crollò paralizzato sul fianco.
    Mentre Valhan si toccava il viso per le lievi scottature, Fernor si tastò ossessivamente il petto con le mani per assicurarsi che fosse tutto intero. Poi afferrò la mano di Valhan, che lo aiutò ad alzarsi. «Stai bene?» gli chiese.
    Fernor si diede un'altra occhiata. «Sì, credo di sì... Tu invece?»
    «Nulla di preoccupante.»
    Fernor guardò la testa decapitata del figlio delle Sacre Fiamme. «Per gli dèi, non l'ho nemmeno visto arrivare.»
    «Quei dannati esseri sono veloci. Per nostra fortuna era da solo. Se fossero stati in due...»
    Fernor raccolse la spada dentata da terra e fissò il corpo decapitato dell'uomo di cenere dalla cui pelle bruciata fuoriuscivano fili di fumo nero. «Guarda, sta fumando...»
    Valhan si fermò all'ingresso e guardò il cielo ingrigito per un momento. Poi passò lo sguardo sul sentiero che conduceva alla caverna. Nessun uomo di cenere in vista. Si voltò verso Fernor. «Fumano sempre quando vengono uccisi. O meglio, decapitati.» Infilzò la testa dell'uomo di cenere con la lama e se la portò davanti al viso. «Vieni, guarda gli occhi. Conservano ancora il bagliore. Visto?»
    «A me sembra ancora vivo» rispose Fernor accigliato.
    «In realtà lo è.»
    Fernor indietreggiò istintivamente con il volto livido.
    Valhan smorzò una risata. «Queste creature non muoiono come noi uomini. Nel loro cranio resta sempre qualcosa di vivo, un residuo delle Sacre Fiamme. Per questo quando viene tagliata loro la testa si induriscono come roccia. Se provi a disintegrarla...»
    «Si formano due uomini di cenere ancor prima che i nostri occhi riescono a scorgerli» rispose Fernor.
    «Proprio così» disse Valhan. «Gli Alonar sono gli unici in grado di eliminarli. Possiedono vaste conoscenze sugli uomini di cenere,ma non le hanno mai condivise con nessuno. Mi chiedo perché? Se le persone apprendessero queste conoscenze, le terre di cenere sarebbero um lontano ricordo.»
    Le primi luci del sole si allungarono sulle terre di cenere e raggiunsero l'entrata della caverna. La testa impalata sulla lama prese a incenerirsi e scomparve in una manciata di polvere assieme al corpo.
    «Ora è morto» disse Valhan.
    «Ma rinascerà al calar della notte» rispose Fernor.
    Uscirono dalla caverna e si fermarono a guardare il nero panorama che si estendeva per chilometri a valle. Morte e desolazione ovunque possasero lo sguardo.
    «Dove andremo?» domandò Fernor.
    «Ho un amico oltre la valle che mi deve un favore» rispose Valhan. «Staremo un po' da lui finché non capiremo cosa fare. Sua moglie non ne sarà felice, ma è l'unico posto sicuro dai compagni di spada.»
    «Sua moglie potrebbe fare la spia.»
    «Non lo farà.»
    Scesero una scarpata e proseguirono a valle, tra alberi carbonizzati e flutti di fumo nero che fumavano dagli squarci nel terreno.
     
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    Azathoth - il Dio Sultano

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    Procediamo bene, leggete, io ancora devo finire tutto. Il voto lo diamo alla fine della storia.
     
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